negli occhi dello sciamano

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Negli occhi dell Sciamano

 di Hernan Huarache Mamani

 

Una storia intensa e coinvolgente, che parla di risveglio, di rinascita e di conquista di una nuova vita. È un uomo che, nato in un piccolo villaggio andino, ha ceduto alle lusinghe della civiltà occidentale. Ma dopo anni trascorsi a Lima (Perù) e aver realizzato in parte i suoi sogni di ragazzo, il suo corpo si ribella. Fiaccato da una grave malattia, decide di fare ritorno al suo paese, tra quegli indios che sono la sua gente. Ed è qui che, grazie alle sapienti cure del padre, recupera la salute. Ma la sua ripresa non è solo fisica. Perché grazie a una conoscenza antica che credeva perduta, eredita delle antiche tradizioni sciamaniche, riscopre il potere dei sogni, l’importanza di sapere ascoltare il proprio cuore più che la mente e il rispetto per la natura. E ora che, grazie anche all’incontro con un maestro spirituale andino, ha ritrovato la strada smarrita un tempo, lo attende un compito preciso: diffondere un messaggio che ha fatto proprio, e fornire agli uomini gli strumenti per stringere un nuovo patto con la “Pachamama”, la Madre Terra. Perché solo traendo da essa forza, il cuore dell’uomo tornerà puro e riscoprirà la vera felicità, contribuendo allo stesso tempo a rendere questo mondo migliore.

 

L’autore: Hernán Huarache Mamani

È un indio Quechua nato nel villaggio andino di Chivay. Si è laureato all’Università UNSA di Arequipa ed è docente universitario di fama internazionale, esperto di cultura andina. In quanto specialista delle antichità locali, scrittore e saggista, è uno dei pochi intellettuali in grado di decifrare i misteri del mondo peruviano. Grazie all’ampia conoscenza delle lingue indigene, è riuscito a porsi in contatto con sapienti che vivono nell’anonimato, sulle Ande.

 

Un frammento del racconto:

«Se vuoi che sia il cuore a condurti, devi essere un uomo di cuore. Così sbaglierai poche volte» mi disse sorridendo.

Non ero affatto soddisfatto delle sue risposte: non mi sembravano né logiche né coerenti. Rimasi in silenzio, convinto che fosse inutile continuare a fare domande.

Dopo aver osservato attentamente l’espressione della mia faccia aggiunse: «il linguaggio del cuore è una cosa che pochi uomini coltivano, perché non si fanno guidare dai sentimenti. In compenso, usano molto il linguaggio della testa e perciò sono freddi. L’uomo di città è sempre desideroso di apprendere cose nuove, riempiendosi la testa con molte nozioni che girano a vuoto nella sua mente. Questi lo fanno gonfiare di vanità e orgoglio, perché convinto di sapere tutto in realtà non sa niente. E il suo cervello è un nido aggrovigliato di pensieri misti a paure, e in questo modo la testa si scalda e il corpo si squilibra. Non solo: a forza di ascoltare il cervello dimentica il cuore, lo zittisce e alla fine il suo cuore diventa muto. E non è solo questa parte di corpo a soffrire, ma l’intero organismo. L’uomo di città rinnega la sua alleanza con la terra, così anche se stesso. Vive costantemente diviso, in case addossate le une alle altre, dove abitano molte persone che però non si conoscono. Non si fida mai di nessuno, perché non capisce che siamo tutti esseri umani e che viviamo calpestando il medesimo suolo. Dobbiamo lavorare per unire i nostri sforzi, non per dividerli».

 

Un altro frammento:

«Il silenzio era solenne. Da qui, si potevano vedere i confini del mondo: montagne nere lontane e vicine. Alla mia sinistra, a una certa distanza, si vedeva un precipizio solcato da una cascata che, come un filo d’argento, tracciava un sentiero. In alto, un condor maestoso volava, meglio, planava immobile, sospeso nell’aria. Era così lontano da sembrare una rondine. Più avanti, c’erano nubi bianche e nere e si sollevavano in alto dal suolo o coprivano i picchi; alcune cime erano coperte di neve, altre ne erano sgombre, come picchi ombrosi. In questo deserto immane mi sentivo come un’insignificante formica. Chi ero io di fronte a questa immensità? Cos’è un uomo davanti alla grandezza della Terra? Non è niente, è un piccolo niente. Nonostante ciò, l’uomo, che è un microbo di fronte all’immensità, si crede padrone e signore della Terra. Siamo davvero i proprietari della Terra? Oppure possiamo forse esserne i custodi?

Avevo lasciato la città e con essa tutto quello che chiamiamo civiltà: luoghi saturi di fumo, chiasso, sirene, campane, fischi, ruggiti di motori. Il frastuono di un’umanità che odia il silenzio, o meglio che lo teme, ed è per questo che riempie tutto con i rumori. Normalmente si vive in mezzo a dubbi, panico, scetticismo; sempre schiavi del tempo, vivendo quotidianamente in stato di stress.

“Sacrifichiamo tutto per un po’ di denaro” pensai.

Ma qui mi sentivo libero, riuscivo a vedere chiaramente.

Nulla si sottraeva al mio sguardo!

Tornai a prendere contatto con la natura, a comprendere la grandezza e la bellezza della Terra; mi chiesi se la città non fosse altro che una prigione per uomini oppure un oceano di umanità naufragata, costretta a vivere un’esistenza in solitudine. Che cosa importava, qui, se non potevo pagare la bolletta del telefono, o l’affitto della casa in cui abitavo, o le spese di tutti i giorni? Avevo vissuto interamente la mia vita o mi ero fatto travolgere dalla routine quotidiana?

La solitudine, il silenzio e la quiete invitavano a meditare. Per prima cosa, pensai a me stesso come un essere vivente. Cosa stavo facendo della mia vita? La stavo usando bene o male? che senso aveva lavorare come un matto tentando di guadagnare denaro? Pensai a me stesso, pensai agli altri. Tutto sembrava illusorio, puerile; a quel punto molte preoccupazioni cominciarono ad allontanarsi.

Avevo lottato per costruire il mio futuro, che per me si traduceva nel riuscire a essere un professionista e avere risultati concreti. Avevo pensato ai beni materiali senza badare al fatto che l’autentica ricchezza dell’uomo risiede nella sua serenità interiore. Poiché l’uomo racchiude in sé uno spirito in evoluzione, non può e non deve in alcun modo farsi divorare dalla cose materiali e terrene. Il denaro è necessario solo per poter vivere e soddisfare alcune necessità…» «… Ricordai la malattia che mi aveva fatto tornare ad Arequipa, il risveglio dopo il sonno che mi aveva portato a incontrare me stesso, a guardare la vita vera: quella del mio spirito! Sicuramente, l’isolamento, il silenzio e la meditazione erano davvero il cibo di colui che ricerca il proprio spirito. Che avevo fatto della mia vita in tutti quegli anni? Niente! Fino ad allora non ero stato me stesso, ma solo ciò che gli altri volevano che fossi. Avevo pronunciato le parole che volevano sentirmi dire…».

 

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