Nuova Zelanda. Costa Ovest dell’Isola del Nord.
Sono tornato da una settimana in questo luogo meraviglioso dopo l’ultimo viaggio di qualche anno fa dove ho scritto l’ultima parte di No Destination, il mio terzo libro.
Insolitamente non sono ancora entrato a fare surf dopo una settimana che sono qui.
Sono andato a trovare alcuni amici, sono stato alle Hot Water Beach e mi sono recato a sentire il potere dei geiser di Te Puia a Rotorua, che rappresentano per me l’espressione dei quattro elementi della Terra uniti in questa manifestazione naturale di una bellezza ammaliante.
In quel luogo magico puoi restare per ore ad osservare il fenomeno naturale, come quando ti ritrovi davanti al fuoco. Solo ora mentre scrivo mi arriva ben chiaro perchè rappresentino i quattro elementi: il Fuoco scalda l’Acqua che, attraverso la Terra, s’incanala per fuoriuscire con potenza e vaporizzarsi in parte nell’Aria.
Sono stato anche a nuotare nel Blu Lake, a visitare le Waitomo Caves (grotte meravigliose), ed ho speso un giorno ed una notte a Raglan.
Compagna di viaggio ideale questa settimana Giorgia, una cara amica conosciuta al Festival del Dijeridoo di Forlimpopoli grazie a Fiorino. Abbiamo percorso 1000 km in una settimana dopo aver lasciato Auckland a bordo di una station wagon a noleggio, ma questa è un’altra storia che racconto nell’articolo sulla prima parte del viaggio nell’Isola del Nord, prima di proseguire in quella del Sud.
Ora ho il bisogno di condividere, soprattutto per metabolizzare l’accaduto, l’incredibile prova a cui sono stato sottoposto ieri. Una vera prova zen per un surfista, e capirete di certo il perchè se vi lascierete guidare ancora una volta in uno dei miei viaggi strampalati alla ricerca delle onde.
Abbiamo lasciato Raglan da circa due ore, le onde erano piccole al famoso point sinistro.
Sento che la nostra destinazione, data l’esposizione della costa alla mareggiata in corso, e la direzione del vento, potrebbe regalarmi finalmente le onde perfette che tanto ho sognato in questo ritorno ad Aotearoa (Nuova Zelanda in lingua maori). Giorgia non surfa, ma è ben felice di accompagnarmi in questa avventura.
Dopo qualche ora, curve dopo curve, la destinazione diventa sempre più vicina…. sono calmo e rilassato anche se curioso di vedere cosa questa volta l’Oceano ha in serbo per me. Ho imparato in anni di ricerca di onde a non avere aspettative, ma spesso sento già come potrebbero essere le onde prima di recarmi in un luogo. Sapevo che a Raglan sarebbero state non abbastanza grandi per farmi entrare a divertire, premetto che la mia tavola da surf è piccola, una 5’10 Vt Pro shapata personalmente per me da Chis Von-Tak, e anche se Kelly Slater usa un modello molto simile per surfare dai beach break della Florida alle onde di Teaupoo a Tahiti e Cloud Break alle Fiji, lui è il Re del Surf, e nel mio caso penso che le onde debbano essere un po’ potenti per permettermi di divertirmi. La questione fondamentale di questa esperienza è proprio legata a lei: la tavola meravigliosa nuova di pacca che ho ritirato poco più di una settimana prima, direttamente alla factory a Manly Vale in Australia, dove Chris fa le tavole in proprio da diversi anni oramai. Per varie ragioni però non ho ancora avuto modo di provarla.
Sento che oggi potrebbe essere il giorno giusto.
Una volta arrivati alla spiaggia mi sono subito reso conto, che non solo le onde che speravo erano lì, ma erano anche potenti, tubanti e sopra due metri di altezza.
Una spiaggia di sabbia nera vulcanica immensa, piena di picchi con onde perfette.
Cerco qualcuno in acqua con lo sguardo e noto solo due surfisti in lontananza. Le onde sembrano impegnative ma fattibili, anche se sembrano rompere sempre in modo diverso l’una dall’altra. Sono tentato ad entrare lì, ma la memoria vola alle parole di Grant, un surfista incontrato sulla costa orientale, che mi ha consigliato vivamente di venire in questo posto perchè a suo avviso c’è un’onda su reef incredibile. Posso provare ad immaginare che l’onda di cui mi ha parlato possa essere da qualche parte dietro quel promontorio laggiù a sinistra. Ma come andarci? In macchina? A piedi sembra una missione: forse un paio di chilometri in linea d’aria.
Come per incanto si materializza un surfista alla macchina accanto alla nostra che è appena uscito dall’acqua e si sta cambiando.
Giorgia mi chiede se sto per entrare. Non può capire cosa porto silenziosamente dentro nonostante la tentazione di entrare proprio lì davanti sulla destra: vedo l’immagine di onde perfette, anche più grosse di quelle che i miei occhi mi stanno mostrando ora. Vedo onde solitarie che rompono sul reef per produrre quelli che noi chiamiamo in gergo tubi perfetti. Come faccio ad esserne sicuro? Infatti non lo sono: è solo una sensazione ma ho fatto altre due ore di macchina proprio per appurarlo.
Mi avvicino al ragazzo che scopro essere brasiliano e vivere a Piha (posto meraviglioso dove sono stato quattro anni fa); mi dice di andare a controllare il reef là dietro e mi indica col braccio verso sud. Caspita è proprio il luogo che sto cercando. Mi spiega che l’unico modo per arrivarci è a piedi camminando sulla spiaggia e poi sugli scogli fino alla scogliera che vediamo in lontananza. Una volta arrivato là non mi resterà che arrampicarmi sulla scogliera e dare un’occhiata. È quasi sicuro che non ci sia nessuno lì ora e che potrei avere onde perfette tutte per me. Lui ha fatto già tre uscite da stamattina e non se la sente di surfare ancora, però decide di procedermi con la sua ragazza per andare a dare un’occhiata.
Parcheggiamo la macchina davanti una casa per sicurezza, mi hanno detto di fare attenzione ai valori personali, ma se devo essere sincero ho sempre incontrato gente davvero tranquilla in giro, anyway. Preparazione.
Con zaino in spalle, cavalletto, macchina fotografica ed action camera, più tavola da surf e muta, ci avviamo a passo svelto verso sud.
Mezz’ora di cammino su sassi alternati a scogli, due spiagge nere molto suggestive e ci siamo quasi. L’ultima parte camminiamo in equilibrio scalzi su scogli e massi ricoperti da minuscole cozze che formano un rivestimento nero a macchie. Io non uso mai le scarpe e chi mi conosce lo sa; Giorgia fa lo stesso per solidarietà, non so le convenga oggi, ma oramai siamo qua.
Mentre arriviamo sotto la scoglira e ci accingiamo a scalare, il brasiliano che ci ha preceduto con la sua ragazza, mi fa segno con il pollice alzato. Mi dice che ci sono almeno sei piedi, tradotto in misura italiana dal punto di vista dei surfisti di questa parte del mondo significa almeno due metri e mezzo. Nessuno in acqua, e mentre mi descrive le onde scende giù e me le mostra in foto, non credo ai miei occhi… mi indica dove arrampicarmi. Lascio la tavola e l’attrezzatura fotografica sotto. Giorgia arriva in lontananza.
Una volta in cima, una decina di metri più in alto, vedo quello che ogni surfista immagina nei suoi sogni: onde perfette, tubanti e lisce come l’olio, senza nessuno da nessuna parte.
Mi sembra strano da poterci credere… lui da sotto mi chiede come mi sembrano. Sono troppo emozionato per rispondere a dovere, lo ringrazio ma non mi sembra abbastanza.
Di solito non ho alcun timore ad affrontare onde nuove e in solitaria, ma sarà che negli ultimi mesi ho surfato quasi esclusivamente onde piccole in posti super affollati che qualcosa un pò mi blocca.
Respiro e resto a guardare un pò mentre arriva anche Giorgia che si arrampica. Penso proprio che entrerò, ma preferisco comunque osservare un attimo per capire come funziona là fuori, le onde non sono piccole, e poi mi fa strano non ci sia nessuno.
Faccio qualche foto. Chiedo alla mia amica se le va di scattare mentre io surfo. Sorridente mi rispondere “certo che sì”… Nel frattempo vedo in lontananza una figura avvicinarsi con una tavola azzurra. Stavolta penso “meglio così ho compagnia, un punto di riferimento in acqua e vedo come entrare e uscire dagli scogli”. È sempre consigliabile osservare un local quando ce n’è la possibilità. Come so che è un local? A parte che man mano che si avvicina riconosco i tratti somatici maori e poi cammina a passo svelto quindi credo che venga proprio verso ciò che sto ammirando con gioia e rispetto. Si arrampica su e ci scambiamo due parole. Mi chiede se mi unisco a lui e gli dico che il tempo di montare le pinne alla tavola, infilare la muta e sono in acqua.
Aspetto a scendere dalla scogliera dopo aver visto dove entra in mare. Un pò rischioso ma si può fare, decido però di entrare da una key hole che mi ha fatto vedere il brasiliano: c’è da nuotare forse cinque-seicento metri ma mi sembra più sicuro quell’accesso.
Giorgia si prepara con l’attrezzatura, io scendo dalla scogliera e la saluto sorridente.
Raggiungo la sacca con la tavola e non nascondo una certa emozione. Entrare in un posto così con solo una persona in acqua con la tavola nuova fatte per me, che mi sembra una macchina da corsa, e avere anche finalmente qualcuno che mi fa due foto, di solito sono sempre solo in queste situazioni, mi sembra un sogno. Comincio a montare le pinne prima di mettere il leash…. Pinna destra, poi la centrale, poi quella sinistra… quella sinistra… ma quella sinistra non entra.
Si capita magari a volte che è un pochino stretto il box dove va incastrata. Riprovo. Niente. Provo a mettere la pinna destra nella stessa scassa e non ci entra neanche lei… ok provo la pinna sinistra nella scassa destra ed entra al volo. Non è quindi la pinna ma la scassa. Insisto… dopo un bel pò Giorgia si affaccia e mi grida da sopra se è tutto ok… A dire il vero non lo è ma come glielo spiego. “Ho solo un piccolo problemino con una pinna ma spero di risolverlo…” e torno all’opera. Niente, niente e ancora niente.
Mi sposto in spiaggia e vedo un altro ragazzo arrivare mentre con una pietra cerco di dare delle martellatine sulla pinna per farla entrare a forza senza fare danni però.
Ci guardiamo insieme un attimo e davanti all’evidenza mi chiede se ho un’altra tavola da usare. Certo perchè in effetti ogni surfista ha spesso più di una tavola, non io. Viaggio sempre con una ed ho lasciato l’ultima che mi ha fatto Chris a Byron Bay perchè ero certo che questa sarebbe bastata, chi avrebbe mai immaginato una cosa del genere. Come se non bastasse vengo assalito da una nuvola di sand flies, moscerini piccoli e fastidiosi che mi tormentando da quando ho messo piede in Nuova Zelanda e che rendono la mia missione ancora più difficile: mi stanno devastando piedi e caviglie. Non solo fanno male ma poi prudono per una settimana. Continuo imperterrito, il buon umore mi è passato… ora sono serio e concentrato ma rischio di far danni. Provo ancora un pò. Dopo un tempo interminabile decido di arrendermi…
Onde perfette, condizioni di mare e vento ideali, un paio di persone in acqua e io non posso entrare a surfare. Non vedo una soluzione, non c’è… respiro.
Rimetto la tavola nella sacca e mi arrampico sulla scogliera per tornare da Giorgia…
Lei mi chiede cosa c’è che non va, le racconto l’accaduto e dopo un attimo di malumore mi ritrovo a respirare profondamente e osservare quella bellezza dell’Oceano e le onde meravigliose. La mia mente cerca soluzioni plausibili: ma anche se andassi alla macchina, tra andare e tornare arriverei qua quasi al tramonto. Poi cosa potrei fare alla macchina prendere la pinza multiuso che mi ha regalato Bebo prima della partenza dall’Italia mesi fa, e con la lima smussare la pinna? Ci vorrebbe comunque troppo. Faccio varie considerazioni, mai sentita una cosa del genere e non è colpa di nessuno: un difetto di fabbricazione della scassa della pinna, che per qualche millimetro mi tiene lontano da quel dono del mare.
Mi rilasso, incrocio le gambe e respirando l’aria fresca e ricca di salsedine che arriva dal mare, mi godo lo spettacolo. Che altro posso fare?
La mia amica è stupita dalla mia reazione, non crede che uno possa restare così calmo, ha diversi amici surfisti e mi confida che sarebbero andati su tutte le furie per molto meno. Sorrido. Ripeto: che ci posso fare? Ho imparato che tutto avviene per una ragione, magari oggi mi sarei potuto far male là fuori, o chi lo sa? Ma non è importante a questo punto… faccio qualche foto e pian piano si aggiungono al mio amico maori un altro paio di ragazzi.
Dopo qualche scatto metto via la macchina fotografica e mi godo lo spettacolo, in compagnia di una buona amica, la perfezione di onde che sognavo da tempo, condizioni uniche, pochissimi in acqua, il cielo che comincia a infiammarsi per via del tramonto… Sereno, tranquillo, in pace con me stesso ed in armonia con gli elementi, sono comunque grato di poter esser lì ad assistere a quel miracolo della natura. Sono certo che al momento giusto mi verrà concesso di unirmi nuovamente alla onde e danzare con loro.
Respiro col diaframma, addrizzo la schiena, socchiudo gli occhi e sto…
Il viaggio in Nuova Zelanda continua nell’articolo da Auckland a Christchurch…
perfect take picture in sunrise